Il cammino sinodale delle Chiese in Italia ha preso avvio con l’Assemblea Generale della CEI nel maggio scorso. Papa Francesco, a partire dal Discorso al Convegno nazionale di Firenze del 10 novembre 2015, ha indicato all’Italia lo stile sinodale come metodo per vivere un’esperienza ecclesiale umile e disinteressata, nella logica delle Beatitudini.
Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente. Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente.
Ha poi ribadito la necessità di un percorso sinodale nel Discorso di apertura della 73ª Assemblea Generale della CEI del 20 maggio 2019 e, più recentemente, nel Discorso all’Ufficio Catechistico Nazionale del 30 gennaio 2021 e nel Discorso al Consiglio Nazionale dell’Azione Cattolica italiana del 30 aprile 2021, offrendo spunti e traiettorie precisi. Incontrando infine i fedeli della Diocesi di Roma, il 18 settembre 2021, Papa Francesco ha dedicato al Sinodo una riflessione articolata, nella quale tra l’altro ha affermato:
Il tema della sinodalità non è il capitolo di un trattato di ecclesiologia, e tanto meno una moda, uno slogan o il nuovo termine da usare o strumentalizzare nei nostri incontri. No! La sinodalità esprime la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione. E quindi parliamo di Chiesa sinodale, evitando, però, di considerare che sia un titolo tra altri, un modo di pensarla che preveda alternative. Non lo dico sulla base di un’opinione teologica, neanche come un pensiero personale, ma seguendo quello che possiamo considerare il primo e il più importante “manuale” di ecclesiologia, che è il libro degli Atti degli Apostoli.
Nel frattempo il Papa ha convocato la Chiesa universale ad un Sinodo che metterà al centro proprio la sinodalità, partendo dalla consultazione dell’intero Popolo di Dio. Il cammino sinodale italiano si inserirà, in questo primo anno 2021-22, nel percorso tracciato dal Sinodo universale, facendo suoi i testi elaborati dalla Segreteria Generale: il Documento Preparatorio e il Vademecum metodologico.
Un cammino ecclesiale già avviato
Nell’intraprendere questo cammino, la Chiesa di Dio che è in Italia non parte da zero, ma raccoglie e rilancia la ricchezza degli orientamenti pastorali decennali della CEI, elaborati fin dagli anni ’70 del secolo scorso, i quali, in un fecondo intreccio con il magistero dei Pontefici, da Paolo VI a Francesco, costituiscono una mappa articolata e sempre valida per la vita delle nostre comunità. Nel suo documento programmatico EvangeliiGaudium, Papa Francesco ha rilanciato con parole nuove e vigorose la dimensione missionaria dell’esperienza cristiana, disegnando piste coraggiose per l’intera Chiesa, provocandola a mettersi più decisamente in cammino insieme alle donne e agli uomini del nostro tempo; quel documento, dispiegatosi poi sempre più chiaramente nei gesti, nelle scelte e negli insegnamenti del Papa, costituisce un’eccezionale spinta a dare carne e sangue all’ispirato inizio della Costituzione conciliare Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo:
Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.
In queste righe è racchiuso il significato del cammino sinodale, perché vi è concentrata la natura della Chiesa: non una comunità che affianca il mondo o lo sorvola, ma donne e uomini che abitano la storia, guardando nella fede a Gesù come il salvatore di tutti (cf. Lumen Gentium 9) e pellegrinando insieme agli altri con la guida dello Spirito, verso la meta comune che è il regno del Padre. La Chiesa è stata concepita in movimento, nel viaggio di Abramo da Ur dei Caldei (cfr. Gen 11,31) e nelle chiamate di Gesù ai discepoli sul lago e sulle strade (cfr. Mt 4,18-23); la Chiesa è popolo pellegrino, che non percorre sentieri privilegiati e corsie preferenziali, ma vie comuni a tutti; la Chiesa non è fatta per stabilirsi, ma per camminare. La Chiesa è Sinodo (syn-odòs), cammino-con: con Dio, con Gesù, con l’umanità.
In ascolto dello Spirito, che in ogni epoca parla alle Chiese
Le Chiese di Dio in Italia avvertono oggi il cammino sinodale come una grazia speciale. Il processo della secolarizzazione, sul quale tanto si è riflettuto e dibattuto, porta anche noi a prestare orecchio, senza più illusioni, alle parole pronunciate dal Santo Padre nel Discorso alla Curia romana del 21 dicembre 2019: dopo avere ribadito quanto già disse a Firenze nel 2015, che cioè la nostra “non è semplicemente un’epoca di cambiamenti ma è un cambiamento d’epoca”, ha aggiunto:
Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più!Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata.
Anziché farne motivo di depressione pastorale o lamentazione nostalgica, è necessario prenderne atto e cercare dentro a questa situazione “ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22). Non è questione puramente funzionale, ma è questione di fede: crediamo o no che il Signore Gesù è risorto e vivo e che il suo Spirito continua ad operare nella storia? Ci sentiamo detentori della grazia e vogliamo misurarla con i nostri parametri fatti di risultati, conteggi, successi e riscontri, o ci sentiamo visitati dalla grazia e vogliamo accoglierla con i criteri di Dio, che sceglie l’umiliazione della carne e la logica pasquale? Questo è il punto decisivo, che non favorisce affatto la rinuncia a pensare e operare, ma colloca le iniziative e i progetti là dove devono stare, cioè al livello della risposta. Troppe volte dimentichiamo nelle nostre comunità che il cuore del servizio è l’ascolto(cf. Lc 10,38-42) e ci sentiamo i protagonisti della pastorale, chiamando poi il Signore a collaborare con noi, quasi dovessimo semplicemente escogitare dei metodi e delle tecniche per evangelizzare gli altri e non, prima di tutto, lasciarci plasmare dal Vangelo e convertire noi stessi.
L’ascolto non è una semplice tecnica per rendere più efficace l’annuncio; l’ascolto è esso stesso annuncio, perché trasmette all’altro un messaggio balsamico: “tu per me sei importante, meriti il mio tempo e la mia attenzione, sei portatore di esperienze e idee che mi provocano e mi aiutano a crescere”. Ascolto della parola di Dio e ascolto dei fratelli e delle sorelle vanno di pari passo. L’ascolto degli ultimi, poi, è nella Chiesa particolarmente prezioso, poiché ripropone lo stile di Gesù, che prestava ascolto ai piccoli, agli ammalati, alle donne, ai peccatori, ai poveri, agli esclusi. L’esperienza sinodale non potrà rinunciare al privilegio dell’ascolto degli ultimi, spesso privi di voce in un contesto sociale nel quale prevale chi è potente e ricco, chi si impone e si fa largo. Oggi appare particolarmente urgente, nel nostro contesto ecclesiale, ascoltare le donne, i giovani e i poveri, che non sempre nelle nostre comunità cristiane hanno la possibilità di offrire i loro pareri e le loro esperienze.
I gemiti dello Spirito
Lo Spirito, dunque, parla ancora oggi alle Chiese in Italia. Il suo tono non è mai urlato – dov’è l’arroganza non è lo Spirito – ma sussurrato; San Paolo gli attribuisce addirittura il linguaggio dei “gemiti inesprimibili” (Rom 8,26). Perché lo Spirito si esprime in questo modo così sofferto? Perché è il veicolo dell’amore di Dio (cf. Rom 5,5), e l’amore assume il linguaggio dell’amato; infatti: “anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rom 8,23). Se l’umanità geme, geme anche lo Spirito. Ma c’è di più: “tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Rom 8,22). Lo Spirito interpreta “il grido della terra e il grido dei poveri” (cf. Laudatosi’ 49), che assumono toni particolarmente inquietanti, anche nel nostro Paese, nelle questioni migratoria ed ecologica, al centro dell’insegnamento di Papa Francesco.
Il gemito è il linguaggio del parto: esprime un dolore intenso, aperto però al nuovo; una grande sofferenza che apre alla vita. Gesù stesso aveva richiamato l’immagine del parto e dei gemiti per anticipare ai discepoli l’esperienza pasquale: dopo avere loro promesso lo “Spirito della verità”, aggiunse: “voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 16,20-22).
Le nostre Chiese in Italia sono coinvolte nel cambiamento epocale; allora non bastano alcuni ritocchi marginali per mettersi in ascolto di ciò che, gemendo, lo Spirito dice alle Chiese. Siamo dentro le doglie del parto. È tempo di sottoporre con decisione al discernimento comunitario l’assetto della nostra pastorale, lasciando da parte le tentazioni conservative e restauratrici e, nello spirito della viva tradizione ecclesiale – tutt’altra cosa dagli allestimenti museali – affrontare con decisione il tema della “riforma”, cioè del recupero di una “forma” più evangelica; se la riforma è compito continuo della Chiesa (“semperpurificanda”: Lumen Gentium 8), diventa compito strutturale, comeinsegna la storia, ad ogni mutamento d’epoca:
La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità (EvangeliiGaudium 33).
Il discernimento comunitario dunque riguarda le decisioni da prendere non solo nei confronti della società e del mondo, ma anche, contemporaneamente, nei confronti della vita stessa della comunità. Il Papa esorta ad un ripensamento a tutto tondo, attraverso una logica che non può che essere quella pasquale: occorre il coraggio di sottoporre alla verifica delle Beatitudini obiettivi, strutture, stile e metodi, perché la parola di Dio possa correre più libera, senza inutili zavorre. Oltre che domandarsi “perché?”, la logica pasquale si chiede “per chi?”, esaminando finalità e strumenti con i criteri spirituali della “salvezza” più che con quelli mondani dell’“efficienza”; allora le persone ferite, povere, allontanate, sprovvedute e umiliate dalla vita – i protagonisti delle Beatitudini – diventano i punti di riferimento della riforma delle nostre comunità.
Il grande gemito della pandemia
Dall’inizio del 2020 si leva nel mondo un gemito universale, causato dalla pandemia. È gemito dell’intera creazione e dell’intera umanità ed è, dunque, anche gemito dello Spirito. Il cammino sinodale, che prende avvio quando la crisi sanitaria è ancora in corso e le sue conseguenze sociali ed economiche fanno registrare disagi enormi, è occasione preziosa per mettersi in ascolto di questo gemito, al quale anche la Chiesa dà voce. Che cosa dunque “lo Spirito dice alle Chiese” attraverso questa grande sofferenza? È sempre il linguaggio del parto, il linguaggio pasquale di morte e risurrezione insieme, quello che parla lo Spirito: osserva infatti Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, che la pandemia da una parte, accentuando i disagi e le sofferenze, suscita appelli e domande esistenziali; e dall’altra, svelando tanti gesti buoni normalmente nascosti, suscita il desiderio di donarsi e fare comunità:
Il dolore, l’incertezza, il timore e la consapevolezza dei propri limiti che la pandemia ha suscitato, fanno risuonare l’appello a ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza (33).
La recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. Siamo stati capaci di riconoscere che le nostre vite sono intrecciate e sostenute da persone ordinarie che, senza dubbio, hanno scritto gli avvenimenti decisivi della nostra storia condivisa: medici, infermieri e infermiere, farmacisti, addetti ai supermercati, personale delle pulizie, badanti, trasportatori, uomini e donne che lavorano per fornire servizi essenziali e sicurezza, volontari, sacerdoti, religiose,…hanno capito che nessuno si salva da solo (54).
Che la pandemia possa diventare culla e non sia solo sepolcro, che possa trasformarsi in un’esperienza di rigenerazione, di vita nuova attraverso le doglie del parto, dipende anche dalla nostra disponibilità ad ascoltare i gemiti dello Spirito. Questa esperienza dolorosa, che ha prodotto innumerevoli lutti e sofferenze e ci ha costretti a domandarci che cosa sia davvero essenziale nella vita, compresa la vita di fede, rende ancora più urgente un cammino sinodale che prenda avvio da un ascolto, paziente e capillare, di tutte le componenti del “Popolo santo e fedele di Dio”.
Il “senso della fede” e il linguaggio narrativo
Il biennio iniziale (2021-2023) sarà quindi completamente dedicato alla consultazione di tutti coloro che vorranno partecipare: alle celebrazioni, alla preghiera, ai dialoghi, ai confronti, agli scambi di esperienze e ai dibattiti. Più che attendersi ricette efficaci o miracoli dal documento sinodale finale, che pure si auspica concreto e coraggioso, siamo certi che sarà questo stesso percorso di ascolto del Signore e dei fratelli a farci sperimentare la bellezza dell’incontro e del cammino, la bellezza della Chiesa.
Sarà un evento nel quale le nostre comunità cercheranno di porsi “in uscita”, favorendo la formazione di gruppi sinodali non solo nelle strutture ecclesiali e negli organismi di partecipazione (consigli presbiterali e pastorali), ma anche nelle case, negli ambienti di ritrovo, lavoro, formazione, cura, assistenza, recupero, cultura e comunicazione. Gli operatori pastorali, coordinati dai presbiteri e diaconi, con i supporti che provengono dalle diocesi, dalle circoscrizioni regionali e dalla CEI, sono invitati a porsi al servizio di questa grande opera di raccolta delle narrazioni delle persone: di tutte le persone, perché in ciascuno opera in qualche misura lo Spirito; anche in coloro che noi riterremmo lontani e distratti, indifferenti e persino ostili.
La vicenda della pandemia ha condensato nel cuore di tutti – specialmente delle persone colpite e di quelle impegnate in prima linea – tante emozioni negative e positive, domande di senso, ferite affettive e relazionali, esperienze dei doni offerti e ricevuti. Chi dovrebbe porsi in ascolto profondo, se non la Chiesa, che ha oltretutto un nome da dare a questa ricchezza: “frutto dello Spirito”?… San Paolo scrive infatti che “il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Dovunque maturi questo frutto, al di là delle distinzioni religiose, culturali e sociali, è all’opera lo Spirito. Gli strumenti sociologici sono certamente utili a definire percentuali, quantità e tendenze; ma sono gli strumenti spirituali a rilevare il “frutto dello Spirito”, che si manifesta nei credenti anche sotto forma di “senso della fede”:
Il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”. Questo significa che quando crede non si sbaglia, anche se non trova parole per esprimere la sua fede. Lo Spirito lo guida nella verità e lo conduce alla salvezza. Come parte del suo mistero d’amore verso l’umanità, Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede – il sensusfidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio. La presenza dello Spirito concede ai cristiani una certa connaturalità con le realtà divine e una saggezza che permette loro di coglierle intuitivamente, benché non dispongano degli strumenti adeguati per esprimerle con precisione (EvangeliiGaudium 119).
La dimensione del racconto è per sua natura alla portata di tutti, anche di coloro che non si sentono a loro agio con i concetti teologici: ed è per questo che sarà privilegiata nel biennio che si apre. Nel primo anno (2021-22) vivremo un confronto a tutto campo sulla Chiesa, percorrendo le tracce proposte dal Sinodo dei Vescovi; nel secondo anno (2022-23), come già chiese il Papa a Firenze, ci concentreremo sulle priorità pastorale che saranno emerse dalla consultazione generale come quelle più urgenti per le Chiese in Italia. Prima ancora dei documenti, sarà questa stessa esperienza di “cammino” a farci crescere nella “sinodalità”, a farci vivere cioè una forma più bella e autentica di Chiesa.
Una lettura sapienziale in vista di scelte profetiche
Ci sarà tempo, in una fase successiva (“sapienziale”), per ritornare sulle narrazioni ed esperienze raccolte, riflettervi insieme anche con l’aiuto degli esperti, e giungere nel 2025 ad alcune decisioni finali, che dovranno avere il coraggio della “profezia”: consegneremo poi al Santo Padre, a cui è affidato il compito del discernimento finale, i nostri sogni e i nostri impegni. Nella seconda metà del decennio è prevista la restituzione degli orientamenti sinodali alle nostre Chiese, dalle quali provengono, per una approfondita recezione, che dovrà essere ugualmente capillare e richiederà dei momenti di verifica.
Vivremo così un decennio (2021-30) che vorrebbe essere interamente sinodale. Per questo i Vescovi italiani, su impulso di Papa Francesco, hanno deciso, anziché redigere gli orientamenti pastorali da studiare e tradurre in pratica nelle comunità cristiane, di affidarne la costruzione all’intero popolo di Dio (del quale fa parte anche il magistero), mantenendo al centro del decennio – in corrispondenza del probabile Giubileo del 2025 – la convocazione nazionale, nella modalità che si chiarirà strada facendo.
Non sappiamo dove ci condurrà questo cammino sinodale: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8). Sappiamo però quanto ci basta per partire: se ci lasceremo condurre umilmente dal Signore risorto, a poco a poco rinunceremo alle nostre singole vedute e rivendicazioni e convergeremo verso “ciò che lo Spirito dice alle Chiese”.
Roma, 29 settembre 2021
Festa dei Santi Michele, Gabriele e Raffaele Arcangeli