(Cattedrale 21 maggio 2021)
In questi anni, in più di un’occasione, ho citato l’efficace definizione della vita data da Paolo VI: “bella e drammatica”.
Personalmente, sono convinto di poter dire la stessa cosa della vita del prete: bella e drammatica.
La bellezza è stata il fattore decisivo della nostra scelta di abbracciare il ministero. Senza questo fascino, ben difficilmente avremmo avuto la forza di seguire la vocazionale presbiterale, piombata – dagli anni Settanta ad oggi – in fondo all’audience del gradimento. Custodire la seduzione che ha dato origine al ministero è fondamentale per impedire alla vita, ai suoi ritmi e traversie di farci dimenticare – per dirlo con una bella immagine di Isaia – la roccia da cui siamo stati tagliati.
Quanto alla drammaticità della vita del prete, non intendo tanto riferirmi alle fatiche e difficoltà con cui dobbiamo fare i conti, pur non negando l’urgenza di immaginare forme nuove in cui declinare il ministero. Vorrei però far notare come la drammaticità sia insita nella sequela del Dio di Nazareth. L’opzione del dare, anzi del regalare la vita, costitutiva dell’essere di Gesù e magna carta della vita del prete mette paura. È un salto mortale a cui “carne e sangue” non riescono a giungere. Appartiene a quel “rinascere dall’alto”, difficile da comprendere non solo per Nicodemo, ma anche per noi; ha i lineamenti forti e belli del “regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre”, realizzato dallo Spirito grazie al sangue di Cristo. È il lieto annuncio ai poveri, la liberazione dei prigionieri, la vista restituita ai ciechi annunciata nella Sinagoga di Nazareth.
Nessuno, allora, si fa prete. È fatto prete e tenuto in vita come prete dallo Spirito Santo che scolpisce in lui i lineamenti di Cristo.
Mi piace immaginare il ministero presbiterale come partecipazione all’oggi di salvezza inaugurato da Gesù, dove il servire e dare la vita è regnare. Le modalità della vita ministeriale andranno senz’altro ripensate, ma unicamente dentro questa prospettiva; diversamente, sarebbe un totale non-senso.
“In questo mondo che corre senza una rotta comune – scrive papa Francesco nella Fratelli Tutti –, si respira un’atmosfera in cui la distanza fra l’ossessione per il proprio benessere e la felicità dell’umanità condivisa sembra allargarsi: sino a far pensare che fra il singolo e la comunità umana sia ormai in corso un vero e proprio scisma. […] Perché una cosa – sottolinea ancora il Papa – è sentirsi costretti a vivere insieme, altra cosa è apprezzare la ricchezza e la bellezza dei semi di vita comune che devono essere cercati e coltivati insieme”.
Aiutato da queste parole, mentre proviamo insieme a cercare come vivere il ministero nei prossimi anni, mi permetto di suggerire di ritrovare il gusto per parole che cercano la vita, suscitano domande, disegnano sogni di fraternità e di comunione. Una vita dove il farsi prossimo non si risolva solo nel dare un po’ di tempo, ma diventi un costante piegarsi e chinarsi sulla storia e la condizione dell’altro. Potremo così fare della nostra vita uno spazio di riconciliazione.